Navigando – Il percorso artistico ed umano di Nando Carotti
di Mauro Mazziero
Dal nostro primo incontro (esattamente riportato nelle sue Memorie) ebbi la sensazione che nel suo aspetto, autorevole e serio, vi fosse un carattere che sfuggiva alla mia esperienza di ragazzo di campagna. Ne ebbi la conferma quando conobbi i suoi trascorsi nella Marina Militare.
Il passo del marinaio è diverso da quello dell’uomo di terra, è naturalmente più sicuro, l’incedere è più solenne come per una necessaria conquista di stabilità.
Nando Carotti ha acquisito molto presto l’istinto del navigatore e non ha mai lasciato il comando della sua nave. Una naturale riservatezza ed esigenza di autonomia lo hanno portato a costruire, anno dopo anno, un suo stile personale che, nell’insegnamento, negli scritti e nella pittura, si caratterizza per forza e chiarezza.
L’amore per le “Belle Arti” lo ha guidato, fin da giovane, verso una continua ricerca di bellezza e di senso. Oltre agli studi accademici frequenta lo studio di suo zio Virgilio Carotti, un raffinato artista di scuola ottocentesca, da cui apprende la tecnica del disegno accademico.
Al segno netto della matita preferisce la morbidezza del carboncino e della sanguigna, da cui nascono i primi studi di figure e le Maternità, suo tema ricorrente.
L’elezione, per meriti artistici, nel Senato Accademico dell’A.I.A.M. (Accademia Internazionale d’Arte Moderna di Roma) gli offre l’opportunità di conoscere i principali artisti presenti sul territorio nazionale e di promuoverne altri. Guido Reale e Mario Catte Ravot, per affinità artistiche ed umane, diverranno suoi amici.
La sua pittura, lasciate le prime esperienze figurative, si nutre delle suggestioni che gli vengono dalle lunghe chiacchierate nelle “serate romane” in cui, con i suoi colleghi dell’Accademia, si lascia piacevolmente trasportare da sogni e progetti. Determinante sarà l’incontro con il pittore Lamberto Ciavatta di cui si considerò sempre amico ed allievo.
Da queste nuove esperienze nasce una superficie pittorica più sofferta che da corpo alle raffigurazioni di grotte e rocce al limite dell’astrazione. L’uso personale della spatola diventa la sua firma: i colori sono stesi in strati leggeri uno sull’altro e successivamente, sulla materia asciutta, l’operazione è ripetuta più volte. Il risultato è una superficie levigata e ricchissima di variazioni tonali.
Tornerà più avanti, negli anni novanta, all’uso del pennello con nuovi soggetti legati alla storia ed alla mitologia. Il colore ora è dato a fresco e le figure sono abbozzate direttamente sulla tela con un po’ di ocra gialla; alla descrizione del particolare preferisce una sintesi narrativa, una visione che spesso si infrange e si moltiplica nello spazio del quadro.
La figurazione, nel suo emergere dalla materia viva ed informe creata ancora con la spatola, mantiene una fluidità che nei corpi, ma anche nei paesaggi, fa pensare alla sostanza dei sogni, al lento affiorare di un particolare dalla memoria che, da solo, riesce rapidamente a richiamare a sé la volontà, la coscienza del sognatore, che vi costruisce intorno una rapida scenografia.
Come negli episodi di proustiana memoria Carotti dialoga, richiama, evoca dal suo immaginario più profondo dettagli cristallini, nuclei brillanti che attirano a sé il colore per vestirsi di abiti provvisori, mutanti, necessari ad una fugace apparizione.
Il segreto di questi personaggi, che affiorano dal suo interiore, emerge nelle Memorie quando dialoga con la Madonna degli abissi e “lei” risponde da dietro la tela ancora bianca.
Non è stato facile seguire questo percorso ma, infine, credo di aver trovato qualche appiglio nel ricordo della sue lezioni in Vico Balilla nº 1, a Potenza Picena, prima sede storica della sua Scuola di Arti Figurative.
Ci intimoriva un poco il suo aspetto severo, certamente lontano dagli stereotipi dell’artista. Mentre spiegava la tecnica della sanguigna presero forma davanti a noi le sue figure: partiva sempre disegnando il profilo del volto, dalla fronte scendeva lungo la guancia fino al mento poi, con una virgola, accennava le ciglia, gli occhi, il naso, la bocca, infine i capelli che si divertiva a “pettinare” usando la gomma che, come lui stesso affermava: “Non serve a cancellare ma a disegnare”.
Da dove venivano quelle figure che sembravano sfuggire nel bianco della carta?
Ci parve di comprenderlo quando ci mostrò un disegno del suo amico Lamberto Ciavatta, tutto risolto con il segno continuo dei pastelli, o quando fece una lezione sui personaggi di memorie lontane di Pietro Annigoni, narrandoci anche del suo personale incontro con il Maestro.
Le sue lezioni non mancavano mai di aneddoti, spesso inattesi, che la vita gli riservava; lavorava insieme a noi e potevamo veder crescere, prima dalle sue parole poi dalla pittura, questi suoi uomini dalla pelle trasparente ma dallo sguardo vivo, i suoi paesaggi rocciosi, le sue grotte scintillanti di colori.
In un pomeriggio d’autunno, dopo aver commentato con gli allievi dei corsi propedeutici un mio dipinto che ritraeva un angolo della stanza con il cavalletto e la grande finestra luminosa, si soffermò a lungo a descrivere il particolare colore che entrava dai vetri al tramonto. Una luce, disse, che era difficile da riprodurre e lo riportava ad un’esperienza vissuta durante un suo viaggio. Ci eravamo attardati con il laboratorio e l’occasione aveva favorito quel discorso, ci narrò qualcosa che aveva un sapore diverso dalle sue lezioni, era un’esperienza speciale che volle condividere con noi.
Si trattava di un sogno: nel dormiveglia un personaggio dall’aspetto canuto lo invitava a seguirlo su una strada bianca e luminosa dove si inoltrarono chiacchierando piacevolmente; nelle ore successive, sbarcato dalla nave ed avviatosi al suo lavoro fu accolto, nella città di destinazione, da un uomo identico a quello sognato ed anche il luogo dell’incontro gli sembrò stranamente familiare.
Ci confidò, quindi, del suo “dialogo” con alcuni dei personaggi dei suoi dipinti che sovente lo “chiamavano” o lui stesso andava a cercare nel suo inconscio, una zona misteriosa dove solo chi sa navigare può inoltrarsi.
Quella sera Nando Carotti mi ha insegnato, e lo ha fatto con tutti coloro che lo hanno seguito, ad ascoltare e a dare corpo al sentire. Tutta la preparazione teorica e pratica che ci aveva dato era stata la necessaria struttura, la nostra personale imbarcazione con la quale, ora, dovevamo salpare.
Nei suoi ultimi dipinti, realizzati prima che la malattia gli negasse l’uso della spatola, egli descrive la luce come elemento vitale della materia e che da essa emerge per mostrarne la sua natura profonda.
Da laico esprime il suo senso del sacro che non trascende il mondo ma che è presente in esso, l’assoluto che si manifesta attraverso forme finite o improvvise folgorazioni che si spandono come fuochi. La pittura, come una pelle necessaria, ricopre ogni trama della tela con uno strato finissimo e senza ripensamenti, quella terra colorata mescolata all’olio di lino che, lungamente lavorata ed amata dalle mani di Nando Carotti, mostra infine la sua faccia d’eternità.
(tratto dalla rivista “Lo Specchio” Magazine n° 3 – Aprile 2012 – anno II – Direttore Lino Palanca)
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