Alessandro (Lisà) Mordini (Porto Recanati, 1931 – Ancona, 2011) a Cura di Lino Palanca
Non c’è niente di meglio, per entrare anche solo un po’ nel mondo di un poeta, che mettersi all’ascolto, non dei suoi interpreti, ma dei suoi versi. Dopo di che, avendone voglia, si potrà continuare nella lettura; nel caso presente, la lettura di quel che a me, che non mi sento un critico letterario, è parso di intendere di Alessandro Mordini.
I (v)iguli del Portu
De (v)iguli a cchì al Portu
ce n’è tanti
e iu l’hu (v)isti propiu
tutti quanti.
Chi ve l’ha dittu
ch’edènne lòghi santi? …
Ma edènne quelli
‘n du edè
che iu ci hu risu …
e pure piantu.
La prima volta che ho sentito la sua voce, parecchi anni fa, fu alla radio, Radio Erre Recanati, in un programma per amanti della poesia sul quale ero capitato davvero per caso. La conduttrice Teresa Bonifazi lo chiamava nonno Lisà e lui rispondeva denunciando l’origine portorecanatese, al di là di ogni ragionevole dubbio. Mi sono informato e ho saputo che si chiamava Alessandro Mordini, classe 1931, che era il fratello del più noto Giovanni, vice sindaco negli anni ’70 e fortemente impegnato nel sindacato e nel partito, CGIL il primo e PCI il secondo. Anche Lisà ha svolto attività politica sotto l’egida della falce e del martello, sia a Porto Recanati, come giovanissimo membro dello staff dirigente comunista che a Potenza Picena dove si era trasferito, ventunenne, subito dopo il matrimonio con Maria Bufalari e dove fu consigliere comunale negli anni ’70 e in precedenza anche Segretario della locale Sezione.
All’età che si definisce matura era arrivato dopo i brutti momenti delle bombe tedesche che gli avevano colpito la casa (con lui e la famiglia dentro), i momenti amari dell’appetito mai sazio, il lavoro che si cercava ma non si faceva trovare, il servizio militare in Sicilia (già con moglie e figli) e, soprattutto, l’emigrazione in Germania a cavallo tra gli anni ’50 e ’60, in una fabbrica di spazzole di Beerfelden, Assia. Nella sua vicenda umana lo hanno accompagnato sempre i tormenti di una vita difficile, densa di lotte continue contro la necessità e il bisogno, aggredita, però, con grinta e determinazione.
A noi che gli sopravviviamo, amici e no, ai compaesani, ai santesi, agli anconetani e ad altri ancora che l’hanno conosciuto, Lisà lascia molti ricordi. Il regalo più prezioso sono le sue poesie, lingua e dialetto, che ha cominciato a scrivere fin da ragazzo, acquisendo col tempo sempre più “mano”; ha pubblicato numerose raccolte, molte delle sue composizioni appaiono in prestigiose antologie, tanti i riconoscimenti e i premi guadagnati. Del tutto autodidatta e particolarmente versato per il dialetto, Lisà è stato l’autore che più di ogni altro ha saputo restituirci il carattere aspro, immediato, essenziale della parlata portolotta, nella sua versione marinara. Va riconosciuto come uno dei poeti più capaci di trasmettere, con vivezza di immaginazione e perfetta padronanza della lingua natia, memorie, immagini, personaggi e sentimenti del tempo andato; e pure, e con forza, un messaggio di solidarietà, di apertura agli altri, al diverso, al nuovo. Un cantore della speranza.
Quello che ne fa un interprete tra i più autentici del sentimento della sua gente è anche l’assoluta mancanza di retorica dei versi che ha scritto, asciutti, scarni, puntuali espressioni del modo di pensare e di vivere dei portorecanatesi, specie quelli con cui ha condiviso il tempo della gioventù e la pena quotidiana della vita disarticolata e precaria sperimentata dagli italiani nell’immediato dopoguerra. Con lui ci siamo finalmente liberati dei luoghi comuni che hanno accompagnato, slacrimandola e deturpandola, l’immagine di questa gente stipata tra Potenza e Musone: lo stereotipo del matriarcato, del pescatore rozzo di fuori e tenero dentro, del portolotto pronto ogni momento al mugugno ma tanto, tanto bonaccione. Sdolcinature e francescanerie, non perché non contenessero la loro parte di verità, ma perché fatte assurgere quasi a categorie dello spirito del popolo portorecanatese. In più, Lisà non si limitava a conoscere le parole del dialetto: era capace di inserirle in un meccanismo di comunicazione rispettoso dei ritmi di una parlata dal carattere sanguigno e della complessità della sua fonetica.
Non era votato alla modestia, Lisà. Sapeva quale fosse il suo valore, ma sapeva pure dove piantare i paletti del proprio limite. A volte mi chiamava per dirmi: Oh, lo sai che ho vinto un premio al concorso tale? – ma aggiungeva subito: oh, però nu’ lu dì a gnisciù!
Andando avanti con l’età, la riservatezza gli piaceva sempre di più. Fino a farci sapere che non l’avremmo più visto né ascoltato solo parecchi giorni dopo la sua morte. E così, l’ultima parola l’ha avuta lui.
Documenti allegati:
- mordini – emigrazione.pdf Brano tratto da “Il viaggio” di Alessandro Mordini – Ancona Ed. AM 2010 (tradotto dal dialetto Porto recanatese in italiano da Lino Palanca.
- Gabriele Nocelli.pdf Breve ricordo di Alessandro Mordini del Prof. Gabriele Nocelli di Potenza Picena. Il Prof. Nocelli è stato sindaco della nostra città quando Alessandro Mordini era Consigliere Comunale.
Davvero un bellissimo ricordo di mio nonno.
Grazie di portarlo nel cuore, e di regalarlo anche un po’ agli altri…
Parlava spesso del buon amico Lino Palanca, e da questo articolo ne traspirano tutte le (ovvie) ragioni.
Grazie.
Laura
Sig.ra Laura, mi creda: scrivere di Lisà è stato, data la circostanza, un doloroso piacere. Lei può dirsi una nipote fortunata.
lino palanca