La Festa della Venuta a Potenza Picena a cura di Norberto Mancini
Una tradizione tanto cara al nostro popolo, poeticamente simpatica e feconda di gradite sensazioni, è la festa della «venuta» che si solennizza il dieci dicembre. L’anima della nostra gente, per natura mistica e soavemente melanconica, ricorda con festiva solennità l’arrivo della Madonna a Loreto avvenuto nell’anno 1294.
E’ noto che la Casa della Vergine fu dagli angeli trasportata da Nazareth a Tersatto dove restò poco più di tre anni. Da qui, nell’anno suddetto, volando attraverso il mare della Dalmazia, giunse alle spiagge del Piceno e scelse come sua sede Loreto.
Durante il volo prodigioso la piccola Casa si fermò in varie località picene. La tradizione dice che nella notte del passaggio non pochi paesi manifestarono la loro devozione alla Madre di Dio con suoni di campane a gloria e con l’accensione di numerosi ceri.
La pia costumanza non è ancor tramontata a Potenza Picena. Anzi bisogna notare che il giorno della «venuta» è atteso con vera ansia non solo dai piccoli, ma pur dagli adulti che partecipando a questa manifestazione religiosa, rivivono gli anni più belli della loro fanciullezza.
La sera della «venuta», all’ora di notte, vi è l’accensione dei falò. Così si celebra il grande avvenimento al quale prendono parte, come abbiamo detto, tutti i cittadini. Ma questa è una festa che trasporta soprattutto l’animo dei ragazzi i quali spendono ogni loro energia migliore per l’ottima riuscita dei falò. Di fatti, essi, una quindicina di giorni prima della «venuta», armati di falce, invadono la campagna e costituiscono la disperazione di molti contadini. Intenti ad accumular materiale per il falò, tagliano siepi, chiedono e asportano paglia, cannugli e fasci di legna. Quel che desta un vivo piacere è l’ardore battagliero che qualche volta accende il petto di questi figli del popolo. Spesso tra un rione e l’altro s’ingaggia una vera battaglia. Se qualcuno, deludendo la sorveglianza dei guardiani del pagliaio, riesce a portar via una buona quantità di legna dal rione avversario, non appena ― per così esprimerci ― il furto viene scoperto, il rione derubato insorge compatto e non si calma se non quando riceve la dovuta soddisfazione.
Circa alle ore diciotto si accendono i fuochi nel paese, nella campagna, in ogni luogo. Tutta la nostra terra che già sembrava riposare nella oscurità e nel silenzio della notte, si desta e assume un aspetto davvero fantastico. A un tratto sembra pullulare di fuochi. Le fiamme dei falò, luminose e scoppiettanti, s’innalzano in alto e paiono salir sino al trono della Vergine Bruna per offrirle l’omaggio di amore e di riconoscenza di tutto un popolo acceso dalla più viva e tenace fede. Non può contemplarsi questa scena notturna senza provare un non so che di arcano che rapisce e commuove.
Mentre i fuochi ardono, le campane delle chiese suonano a distesa mandando lieti rintocchi che vibrano, s’inseguono, si rispondono e riempiono l’animo di gaudio. Al suono melodioso dei sacri bronzi s’unisce lo sparo dei fucili, dei petardi, delle bombette e di altro. Così l’inno di amore ascende le vie dei cieli sparse di miriadi di stelle che ammirano estatiche la solennità religiosa celebrata da una gente avvinta al culto di una tradizione affascinante. Piccoli e grandi, giovani e vecchi si adunano intorno ai «focaracci». I ragazzi saltano giulivi, gridano, salutano in questo modo il lieto evento. Ogni volto riflette una felicità immensa. Pur la preghiera rende più suggestiva questa manifestazione popolare. Le litanie cantate in coro risuonano nella notte come una musica solenne di anime osannanti. La melodia s’innalza e spande una dolcezza di paradiso.
Quando le fiamme dei falò sono spente, avviene un fatto commovente. Le donne a gara raccolgono i tizzoni ardenti che portano nelle loro case. Quel carbone arso in onore della Vergine, sarà come un talismano. Un segno di protezione celeste che non mancherà in qualche triste circostanza. E’ la credenza di un popolo sincero e devoto che manifesta la sua fede genuina nei valori ideali della vita con motivi di bella poesia.
Brano tratto da “Visioni Potentine” di Norberto Mancini del 1958. Stabilimento Tipografico Sociale Fermo.