Trentacinque anni or sono a Potenza Picena c’era una radio — Che fai? Trasmetti?
Vaghi ricordi di un’emittente di provincia
a cura di Enrico Pighetti
“Bene, questo è un brano suonato dalla Vecchia Romagna… ehm… cioè… scusate… dalla Nuova Romagna…”. Parte proprio così la mia vicenda radiofonica: una clamorosa papera rigorosamente in diretta dalla magica frequenza dei 97.8 megahertz. Siamo a fine giugno 1978. La sua avventura Radio Sonic l’aveva però cominciata poco meno di un anno prima, nel settembre del ’77 quando lo storico patron Mario Gattari decise il grande passo. Non era un granché convinto, Mario. Lui le radio le riparava, qualche volta le vendeva. Riempire di contenuti quelle scatoline alle quali fino ad allora aveva al massimo sostituito transistors e resistenze difettate doveva sembrargli tutt’altro paio di maniche. Aveva ragione.
Ma i tempi sono maturi. Da Ancona, Radio Arancia serve spremute di musica in tutta libertà. Un po’ più a sud, Radio Open e Radio Civitanova 102 dettano legge. E a Osimo, tra una trasmissione e l’altra, gli speakers di Radio Mantakas si prendono a botte per strada con quelli di Radio Popolare per ragioni – dicono loro – di stampo squisitamente ideologico. Insomma, a Potenza Picena, patria del Grappolo d’Oro, un’alternativa ai western del Cinema Aurora e all’oratorio della Collegiata deve arrivare. A tirar fuori il coniglio dal cilindro ci pensa un motivatissimo Ilario Ruffini, la cui consolidata amicizia con il buon Gattari evidentemente riesce a scardinare le ultime resistenze.
Vico Balilla, 1: qui nasce e qui, ahimé, morirà qualche tempo più tardi l’esperienza della prima radio privata potentina. Il locale, una vecchia abitazione nel cuore del centro storico, lo rende disponibile Nazzareno Ricciardi, professione commerciante di mobili, il quale avrà pensato: “Ma si, lasciamoli giocare”. E infatti il gioco si fa subito duro: da Firenze arriva un “potente” 100 watt e la poco idonea “Gran Plain” sistemata sulla torre diroccata dell’ex chiesa di Sant’Agostino (all’epoca le autorizzazioni della Soprintendenza erano poco più di un optional) viene ben presto sostituita da una più efficace antenna omnidirezionale. Su un tavolo viene sistemato il mixerino sei cursori della Amtroncraft e ai lati i leggendari Lenco L75s per far girare i dischi. Due microfoni, un registratore, qualche scaffale per gli LP e si parte. Più tardi arriverà il cabinotto con le pareti interne rivestite coi classici contenitori di uova, idea tutt’altro che peregrina se si pensa che ancora oggi i più sofisticati studi di registrazione usano proprio quelle pittoresche scatole per insonorizzare le stanze.
Radio Sonic chiuderà i battenti nell’inverno del ’79. Una storia relativamente breve, durata poco più di un anno e mezzo, ma molto intensa, entusiasmante, vivida di passioni. In quelle stanze si va in onda, voce e musica passano attraverso i cavi e una scatolina argento puro con delle strane lucine verdi provvede a spingerle nell’etere. E volano lontano, voce e musica, insieme, portate dal vento, come foglie secche, per poi materializzarsi in quei piccoli marchingegni in modo del tutto sorprendente, quasi un sortilegio, una formula segreta fino a quel giorno gelosamente conservata nelle viscere di mamma Rai ed ora inspiegabilmente ad appannaggio dei più. Emozioni difficili da raccontare. Ci riesce, forse, solo “Radio Freccia” di Luciano Ligabue, quando partono le note di “Sweet home Alabama” e un gruppo di amici sale in auto e va, per sentire “dove arriva la radio”.
Mister Soul e Mister Spirit: nelle serate domenicali, quando, non disponendo di mezzi propri per scappare dal paese e raggiungere un luogo di svago, l’unica possibilità era quella di una partitella a Monopoli o di una briscoletta allo Snack Bar, l’alternativa per allietare la propria esistenza e rovinare quella degli altri l’avevamo trovata io e Piero Reucci con “The international disco variety and space music”. Non lasciatevi impressionare dall’altisonanza del titolo: si trattava semplicemente di mettere in onda, per due ore di seguito (tre, se chi doveva dare il cambio ritardava) le versioni inglese e tedesca di Trans Europe Express dei Kraftwerk, reiteratamente mixate tra loro e interrotte solo da qualche rara incursione di canzoni prese a caso dal repertorio dei Rockets. Al supplizio che ne derivava, avevamo pensato bene di aggiungere un 45 giri supplemento de l’Espresso che documentava le concitate fasi del drammatico rientro dalla luna dell’Apollo 13. Ebbene, la chicca consisteva in un improbabile collegamento in diretta nientemeno che con Ruggero Orlando, al quale faceva seguito un’esplosione presa da non so quale nastro registrato. La provvidenziale scelta di celare la nostra vera identità dietro i – diremmo oggi – nicknames di Mister Soul e Mister Spirit credo ci abbia preservato da una raffica di richieste di risarcimento danni, a cominciare da quelle di Ruggero Orlando e del management team di Cape Canaveral. Vi confesso che a tutt’oggi non ho ben chiaro chi di noi due fosse Mister Soul e chi invece Mister Spirit. Ma questo mi pare un dettaglio trascurabile.
The mad program: a mio modo di vedere, di questa trasmissione, ideata e condotta da Stefano Meriggi (la cui notorietà è in parte dovuta alla sua discendenza diretta da Ornelio, storico cartolaio del paese) si è sempre trascurato un aspetto che invece va valorizzato. Scontata la verve di un adolescente che, grazie anche ad un’accattivante dialettica, riusciva a farti trascorrere un’oretta in allegria con della buona musica, ciò che è sempre sfuggito all’attenzione dei più è l’arzigogolata sigla di apertura e di chiusura che infiocchettava l’insieme. A Radio Sonic il concetto di “intro pre-registrata” non esisteva: si prendeva un disco, si sceglieva un brano e si andava in onda. Lo stesso motivetto un’ora dopo serviva a far calare il sipario. Per la sua sigla, Stefano di dischi ne aveva addirittura tre: due Lp e un 45 giri. Dovevi avere braccia lunghe e e tanta mira per annunciare il programma e contemporaneamente mandare in rapida successione i brani. Se poi ci metti che per passare da 33 a 45 giri il giradischi era dotato di uno scomodissimo selettore a leva… Insomma, un numero da circo Takimiri. E infatti qualche volta il 45 andava a 33 e viceversa. Ma il problema non sussisteva, anzi: tutto è concesso ad un mad program…
Lo scopino che scopa e lo scacchettino pubblicitario: In un’epoca dominata dalla disco dance quello di Graziano Principi era un repertorio in netta controtendenza. Grazie a lui avevamo scoperto che stornelli a doppio senso e musichette da osteria godevano di una loro vinil-dignità, nel senso che qualcuno aveva avuto il non certo trascurabile spirito di intraprendenza imprenditoriale di farne delle copie e di metterle pure in vendita. Graziano ne aveva collezionate in quantità industriale. La più gettonata era certamente “Lo scopino che scopa”, la cui messa in onda era quasi sempre accompagnata da variopinte dediche e pepati commenti. Io e Giampiero Percossi aspettavamo con ansia quel programma. E non solo per il grande interesse che in noi destava il genere. Con la scusa di voler assaporare al meglio la perfezione del suono di quelle soavi arie, chiedevamo al nostro ignaro eroe di prestarci le chiavi della sua Fiat 128 così – era questo l’inganno – da poter ascoltare la play list in tutta tranquillità dalla potente autoradio. A occhio e croce dovrebbe essere ormai prescritto il reato di guida senza patente. La messa in onda, a un quarto d’ora dal termine, dello “scacchettino pubblicitario” (i consigli per gli acquisti) era per noi il segnale che si doveva tornare rapidi rapidi all’ovile. Una volta però, detto “scacchettino” partì appena dieci minuti dopo l’inizio del programma. Non ci volle molto a realizzare che qualcuno doveva essersi accorto che una certa vettura non era più parcheggiata al suo posto. E infatti…
Radio Sonic Pubblicità: mentre Bill Gates cercava di convincere il padre (che lo voleva avvocato) sulle opportunità che di lì a qualche anno avrebbe offerto l’informatica e le sue applicazioni (non ultima la possibilità di riprodurre una serie di brani in successione), a Radio Sonic si faceva di necessità virtù: visto che si disponeva di un solo riproduttore di nastri (il classico registratore), gli spot pubblicitari venivano registrati uno dopo l’altro su una sola cassetta che scorreva dall’inizio alla fine per la gioia degli sponsor. Piccolo inconveniente: allo scadere di un contratto, bisognava registrare nuovamente tutti gli spot non ancora scaduti. Della faccenda si occupava Alberto Montebello, oggi affermato pubblicitario. In assoluto una delle più belle voci del panorama radiofonico marchigiano, il buon Alberto radunava un gruppo di aficionados (in gran parte speakers della radio) e ad ognuno di loro assegnava la parte da recitare nella scenetta pubblicitaria. I “lavori in corso” comportavano la sospensione del normale palinsesto. Del resto, l’unico studio disponibile per registrare era proprio quello della diretta.
Adriana dediche e richieste: “Veramente lavori in radio? Allora mi fai una dedica?”. Per qualche ragione che non so spiegarvi, nell’immaginario collettivo chiunque abbia a che fare con una radio, dall’intrattenitore al giornalista, dal tecnico al centralinista, al disc jockey, a chi si occupa delle previsioni del tempo, nessuno escluso, deve sentirsi in dovere di declinare saluti e salutini in tutte le salse. Insomma, dediche e richieste rientrano nel novero degli elementi costituitivi di una trasmissione radiofonica, a prescindere dalla materia trattata. Quello di Adriana Paparelli però non era un semplice programma di dediche. Era un atto di eroismo la cui valenza non è stata, a quel che mi è dato di ricordare, mai presa in sufficiente considerazione. Dettaglio tutt’altro che trascurabile, almeno nella fattispecie, Radio Sonic non disponeva di telefono. A fronte di questa apparentemente incolmabile lacuna, per niente intimorita, la nostra Stamira dal biondo caschetto procedeva sicura per il paese, raccogliendo ad ogni crocicchio messaggi di auguri, manifestazioni di simpatia, dichiarazioni d’amore, che con certosina solerzia appuntava su fogli e pizzini di varia misura per poi annunciarli nel suo seguitissimo show. Per farsi un’idea del suo indice di gradimento bastava contare quante volte, in un giorno, la si era incontrata per vicoli e viuzze alle prese con carta e penna.
Rosaria, Catia e lo zio Silvano: Della pagina della cultura si occupava l’avvocato Silvano Mazzoni che, con competenza e proprietà di linguaggio notevoli, preparava i testi di una trasmissione la cui conduzione aveva affidato alla nipote, Rosaria Orselli, affiancata in questo compito impegnativo assai, dall’inseparabile amica Catia Margaretini. I miei diciassette anni dell’epoca non giustificano ma forse costituiscono un’attenuante: io di quel programma ricordo vagamente i contenuti (vicende storiche del paese e relativi personaggi, mi pare, ma non ci giurerei). Una particolarità però mi è rimasta ben impressa, ed è forse quella che mi spingeva a stare con l’orecchio attaccato all’apparecchio. Quando si è in diretta capita a volte anche ai più bravi di incespicare nella lettura di uno scritto. Per limitare i danni, la tecnica sta tutta nel far finta di nulla, procedendo come se niente fosse accaduto. Rosaria e Catia andavano nella direzione opposta: un attimo di pausa e scoppiavano a ridere. Il cursore del microfono rapidamente abbassato non faceva altro che amplificare l’evento. E chi ascoltava veniva inevitabilmente contagiato. Il sorriso – dicono – fa bene alla salute. Un esempio di radiorubrica terapeutica, dunque. Per la componente culturale soprattutto, ovvio.
Stanislaiv, Trimì e Frataleo Elisocchi: L’ostinazione tutta italica di voler pronunciare i termini stranieri con impeccabile accentazione madrelingua (cortesia peraltro mai ricambiata all’estero), nelle trasmissioni della nostra cara radio potentina non incontra i favori degli speakers che così, inconsapevolmente, si adeguano con largo anticipo (circa trent’anni) ai processi di globalizzazione. In parole povere: avete mai sentito un anchorman americano, un presentatore cinese o un commentatore polacco districarsi in parole quali “trotterellando”, “appallottolare”, “pagliericcio”? Perché allora scandalizzarsi se a Radio Sonic, l’arcinota “Stayin’ Alive” dei Bee Gees assume le graziose sembianze di “Stanislaiv”. Neanche Donna Summer viene risparmiata ed ecco che il suo “Try Me”, così spigoloso al palato, si riproduce nel più melodioso “Trimì”, dal vago sapore d’oltralpe. Di tutt’altra natura la vicenda legata a Frataleo Elisocchi. Noto personaggio potentino, Eliseo Fratalocchi era pure titolare di una rubrica radiofonica. Il suo nome e cognome si prestavano, in chi annunciava il suo arrivo in studio, all’involontaria inversione sillabale di cui sopra.
La partita di pallone: Se non si tiene conto del mancato gemellaggio con la Pro Loco di Offagna, lo stato dell’arte Radio Sonic lo sfiora con le radiocronache degli incontri di calcio in diretta dal “Favale Scarfiotti”. Per la riuscita dell’impresa viene messo in campo il meglio delle risorse disponibili: un “baracchino” assicura i collegamenti con lo studio e c’è anche uno speaker a bordo campo col quale si riesce a comunicare grazie ad un potente walkie talkie, ovviando così ad un incerto della prima ora: a causa della presenza di alcuni alberi, dal cabinotto-biglietteria gentilmente concesso dalla società sportiva non si riesce a vedere la sottostante area di rigore con annessa porta. L’inconveniente viene però abilmente bypassato grazie appunto allo stratagemma del commentatore in campo che prende la parola quando una delle due squadre attacca nella zona in ombra, fornendo pure un valido supporto al guardalinee quando il microfono torna al collega della postazione centrale. Chi allora si prese la briga di affidarmi la conduzione della prima radiocronaca evidentemente ignorava il fatto che non solo ero completamente digiuno in materia ma addirittura non avevo la più pallida idea di come si chiamassero quegli omini che si affannavano su e giù per il rettangolo verde. Ne uscì fuori qualcosa del genere “… ecco all’attacco i giallorossi della Potentina che avanzano, avanzano, avanzano… ma la palla torna ai verdi che se la passano e se la ripassano e si avvicinano alla porta… ma da qui non riesco a vedere… passo quindi la parola al collega… ecc. ecc. ecc.”. La domenica successiva la patata bollente venne opportunamente consegnata ad un competente Maurizio Stramucci, le tifoserie cittadine tirarono un sospiro di sollievo ed io tornai ad affaccendarmi nelle mie consuete faccende.
Jazz e country rock: Gli sconvolgenti anni ’70. Passare dalle musiche dei siparietti di Carosello alla “progressive” di Genesis e Pink Floyd non era stato facile. A complicare le cose, a fine decennio, arriva la disco music. Che spopola, eccome, in radio, a fatica contenuta dalla morigeratezza dei cantautori proposti da Giuseppe Pastocchi e Maurizio Mancini. Nello stesso periodo, qualcuno coraggiosamente tenta anche la strada dei master parauniversitari. Un motivato Tiberio Rossini apre le porte alla musica jazz e i suoi dischi sono reliquie. Ma è Franco Piersanti ad introdurci nel sancta sanctorum della country rock: la sigla è “Woodstock”, di Crosby, Stills, Nash e Young. Mentre scrivo, passa in sottofondo su YouTube. Lo confesso: ho la stessa pelle d’oca di allora.
Pasta e fagioli: Le “power hits” sono, nel gergo radiofonico, i tormentoni che (complici i lauti compensi elargiti dalle case discografiche) vengono propinati a più riprese, ogni giorno, dai network nazionali con l’obiettivo di dare visibilità a una certa canzone e a chi la canta. Il termine allora non era stato ancora coniato ma a Radio Sonic le power hits rappresentavano un fenomeno ricorrente ed ineluttabile. Non c’erano i denari, ergo i dischi erano sempre gli stessi. E andavano, ripetutamente, messi in onda dal conduttore di turno in base alle proprie preferenze. Tanto per fare un esempio: “You and I” di Rick James, un 45 giri di pura disco-music, genere di competenza (o almeno così avrebbe dovuto essere) di Virgilio Cittarello e del suo programma. Lui giustamente si imbestialiva, defraudato della sua prerogativa. Ma, che vuoi farci? Il disco era lì, appoggiato sullo scaffale, la tentazione era forte e la carne, si sa…
Ricordo ancora quando qualcuno ci annunciò che eravamo miracolosamente entrati (non è uno scherzo) nel circuito “Pasta e fagioli”, una distribuzione parallela di brani concessa dalle case discografiche ad un prezzo più che abbordabile. In pratica ogni mese ci avrebbero fatto avere un intero scatolone pieno di merce fresca. “Pasta e fagioli”, appunto. Una sorta di minestrone immangiabile, scoprimmo poi. Cantanti misconosciuti spacciati per precursori di improbabili nuove tendenze. “Splendido splendente” di Donatella Rettore in assoluto il brano di maggior spessore dell’intero stock. Non credo debba aggiungere altro…
Il cipollone e la glasnost: Puntualità e trasparenza. Due peculiarità di cui Radio Sonic 97.800 mhz in modulazione di frequenza può fregiarsi a pieno titolo. Dovevamo pure inventarci qualcosa, noi pionieri dell’etere, affinché l’intrattenimento non si esaurisse nell’annunciare e disannunciare le canzoni. Per riempire gli spazi vuoti giungevano in soccorso due formidabili strumenti: l’orologio-sveglia modello “comodino della camera da letto” con tanto di gallinella che beccando scandiva i secondi (il fatidico “cipollone”) e i foglietti con gli annunci appesi davanti alla console. Alla fine di ogni brano eravamo soliti ripetere l’ora, tanto che, chi ci ascoltava, aveva la percezione dell’avanzare incessante del giorno. Se poi aggiungiamo che spesso, a microfono aperto, si infilavano anche i rintocchi del campanone della torre di piazza Matteotti, il quadro è completo.
La seconda eccellenza era costituita dalla lettura, a più riprese, degli annunci. In diretta si leggeva tutto quello che capitava a portata di cornea. Pure le cosiddette “comunicazioni interne” del tipo: “Venerdì prossimo alle 17, riunione degli speaker per decidere i nuovi turni di pulizia delle stanze”.
Anche in questo caso, anticipando di quasi un decennio la difficile battaglia portata avanti da un noto statista russo, mamma Sonic metteva in pratica un sistema tutto radiofonico di glasnost: un embrione di quella che qualcuno avrebbe, negli anni a venire, definito come democrazia partecipativa. Peccato però che a fare le pulizie alla fine fossero sempre gli stessi.
Caro Paolo, questo racconto di Enrico Pighetti è davvero molto interessante, oltre che piacevole e ben scritto, a metà tra l’ironia e la nostalgia. E sta benissimo nel sito in quanto racconta storia e cultura dei giovani e adolescenti potentini degli anni 70, tesi a scoprire, a fare, a sperimentare, proprio nel periodo in cui nasceva una nuova musica e anche un nuovo mondo e una nuova comunicazione. Così abbiamo un vivace quadro di personaggi potentini “moderni”…
Mi ricorda alcune pagine del compianto Edmondo Berselli quando parla della musica degli anni ’60/70 (Equipe ’84, Guccini, Caterina Caselli, ecc.)
Davvero bello
ENRICO è un grande personaggio della comunicazione, e già negli anni 70 si vedeva che la stoffa c’era.
Peccato che di aiuti a quella radio,ce ne siano stati pochi.
L’Amministrazione in quegli anni era poco interessata alle politiche giovanili, e non poteva pensare ad un gruppo di giovinastri che perdeva tempo a mettere su dei dischi.
Bisogna anche dire che giovani con la voglia di fare cultura, in quel periodo, ce n’ erano veramente pochi.
In ogni caso concordo con Maria Granati, per il brio e lo stile del racconto di Enrico.
Mamma quanti ricordi! Sono veramente perle che stai recuperando per tutti noi Paolo . grazie di cuore. …abbasso il microfono..senti ancora la mia risata?
rosaria
Colpo di scena! Mi ricordavo certo delle nostre trasmissioni sui Beatles che solo le nostre madri ascoltavano.. forse… ma non avevo idea che qualcuno avesse tenute la cronistoria di questa esperienza. Ci siamo fatte delle belle risate io e Rosaria! E Adriana Paparelli! Ho avuto un immediato tuffo nel passato ricordando le sue dediche
Quanti milioni di anni sono passati? E poi Enrico Pighetti, credo che l’ultima volta che ci siamo visti eravamo alle elementari….incredibile che qualcuno ricordi ancora radio Sonic.
Un saluto particolare a Rosaria, mia compagna di risate….comunque, by the way… ancora mi ricordo tutti (o quasi) i testi delle canzoni dei Beatles a memoria oggi a 34 anni di distanza…. giusto 2012-1978? Con grande piacere, mio figlio Niall di 13 anni suona benissimo “Let it be” al piano.
GRAZIE GRAZIE GRAZIE!! Questi sono i tasselli che mi mancavano.. Io ero già a Gabicce Mare da tempo ma troppo spesso pensavo : “cacchio staranno facendo li Potentini? Soprattutto perchè anche qui le radio aprivano e chiudevano in meno di un amen.. Ma che periodo, che MERAVIGLIOSO PERIODO, altro che Ipad,Ipod…