Biografia di Bruno Arzeni: “mondo fluttuante” di un poeta maceratese diviso tra Italia e Germania
di Pamela Temperini
Quella terra che s’affaccia
di sui colli alla marina
come sposa da balconi
nella limpida mattina;
[…] o mia terra benedetta,
nell’ignara tua semenza
riconosco i vivi e i morti,
dei millenni l’esperienza;
o mia terra benedetta,
qui dei sogni nella gloria
curvo interrogo il tuo seme
e ritrovo la mia storia.
(da “La Terra”
di Bruno Arzeni)
È un giorno qualunque di un anno preciso, il 1944. Dei bimbi giocano nella corte di un modesto casale alla periferia di Macerata. È l’ora della merenda, lo sanno, e per questo si affollano intorno a Piera che ha promesso loro pane e marmellata. Ma la gioia di gustare questa prelibatezza si spegne quando la signora Helga, vicina di casa, interviene ammonendo che il contenuto delle scatolette, distribuite dai tedeschi accampati nelle vicinanze, in realtà è lucido da scarpe. Nessuno metterà in dubbio le sue parole perché Helga Steinmeyer è una giovane tedesca, arrivata a Macerata anni prima, per amore di un affascinante docente italiano conosciuto all’Università di Monaco di Baviera: Bruno Arzeni.
[Ricordo di una testimone dell’epoca]
Bruno ed Helga si erano sposati il 21 giugno 1941 nella bellissima Basilica della Madonna della Misericordia di Macerata e si erano sistemati nella casa, presa in affitto dalla madre di Bruno, lungo l’antica Via dei Mulini, la cui posizione permetteva di godere della vallata del Potenza e degli stessi Monti Sibillini. Per i due giovani sposi doveva essere l’inizio di una vita insieme piena di speranze ma entrambi erano già consapevoli che la loro sarebbe stata una storia segnata in partenza da molte difficoltà, che solo il loro grande ed incondizionato amore riuscì a superare. Nato nel 1905, a Corridonia, l’antica Pausula, in provincia di Macerata, Bruno Arzeni conosce ben presto la morsa del dolore, perdendo prematuramente il fratellino maggiore ammalatosi di tifo ed in seguito il padre che si toglie la vita per gravi problemi economici. A dodici anni la prima poesia, “L’Eroe”e l’inizio di un mondo esclusivo in cui versare la propria anima e dal quale trarre la forza per affrontare una vita accompagnata dalla lunga ombra della malattia, la tubercolosi, insorta ad appena quindici anni. Malgrado i periodi di isolamento ai quali la peste bianca lo costringeva, il giovane consegue brillanti studi fino a laurearsi in Lettere con il massimo dei voti presso l’Università degli studi di Roma ed ottiene una borsa di studio per l’Università di Monaco di Baviera.
Scopre da subito una grande affinità con questa città e con la stessa Germania che avrebbe voluto conoscere di più e la cui lingua riteneva una delle più belle del mondo. Ma se grande è la voglia di bagnarsi nel mare della cultura tedesca, mai sopita è la nostalgia per la sua regione ed in particolare per la sua provincia, che esprime al meglio nella poesia “La Terra”, un luogo caro pronto a riaccoglierlo una volta che il peggioramento della malattia l’obbligherà ad interrompere per sempre la carriera di docente di lingua e letteratura italiana a Monaco. Fino alla sua scomparsa, avvenuta nel 1954, la casa sul poggio, da lui ribattezzata la tana, è il perimetro fisico e spirituale in cui trascorre il resto della vita, regalando al mondo il suo seme nelle persone di Flavia, di Sergio e Patrizia, collaborando con case editrici quale traduttore di grandi scrittori come Goethe, Mann, Kafka e producendo centinaia di poesie.
“Tu mi tiri fuori dalla mia tana con una violenza d’amore” Biografia di Bruno Arzeni, Macerata 2008, di Romano Ruffini nasce dal profondo desiderio di rendere omaggio ad un artista poco conosciuto che ha saputo trasformare le ferite in bellezza e scoprire nella tragicità degli eventi la speranza che ci è data. L’opera, realizzata grazie all’archivio di famiglia messo a disposizione dalla signora Helga Arzeni e con il contributo della Fondazione della Cassa di Risparmio di Macerata, esalta la vita del poeta per nulla influenzata dall’avvento della “civiltà delle macchine”, e dalle meraviglie della tecnica, tipiche del primo Novecento, bensì quasi volutamente rallentata, in barba alla velocità celebrata dalla corrente futurista, ed incastonata in immagini liriche idealmente più vicine, oserei dire, a quelle del mondo fluttuante, ukiyo, l’arte fiorita in Giappone nel XVII secolo, dominata da una forte presenza della natura e regolata dalla lentezza del ciclo della vita. La parola, in giapponese, accoglie in sé anche il richiamo al mondo della sofferenza al quale il Buddismo Zen invitava a sottrarsi evitando l’attaccamento ai beni terreni e godendo della divina armonia nelle piccole cose della natura come un fiore, un albero, un animale che gli artisti del Sol Levante raffigurano muniti di vita propria, colti nella fugacità dell’attimo. Come la natura in Hokusai o Hiroshige è poesia così la poesia, in Arzeni, è natura, anima pulsante momento per momento, che rimargina le ferite della sua sofferenza. Ed alcune delle creature presenti nel suo mondo poetico, Il Ragno, Albero, Le Stelle, La Notte, L’Acqua, La Quercia lo aiutano a superare la ripetitività dell’esistenza che lo affliggeva non poco, confinato com’era al secondo piano della casa, prigioniero, immobile come in un cerchio stregato.
Ed anche nel Diario, l’ennesimo rifugio cartaceo dei suoi pensieri e dei suoi tormenti, con una splendida metafora universale sublima quest’intimo disagio: “L’uomo cerca in tutti i modi di sfuggire alla monotonia dell’esistenza: è come chi, in una strada lunghissima, rettilinea, squallida, segnasse ogni tanto con una pietra, con un legno, con un qualsiasi altro oggetto. Divisa in chilometri, in ettometri, in metri, la strada perde la sua ossessionante monotonia. Ad ogni metro è una nuova strada. La vita ricomincia.”
Articolo tratto da Primapagina, periodico di informazione e cultura della Banca delle Marche, n. 57 – Settembre 2011.